L’Imele
Che cos’è Imele? Per chi non è del posto l’Imele è il fiume Imele. Più semplicemente è: “Jo fiumo”. Un fiume caro a chi lo ha vissuto e lo vive! Piccolo fiume. Tuttavia ha visto e racconta, oltre la vita di tutti i giorni degli abitanti dei paesi che attraversa, anche grandi eventi. Sgorga gorgogliando dalle viscere di Tagliacozzo, ma la sua via inizia prima. Nelle montagne del gruppo Midia o in quelle di Verrecchie, paese e luoghi alla periferia della provincia de L’Aquila e della Marsica. L’Imele, secondo qualche storico, segnava il confine fra gli Equi, riva nord e i Marsi, sponda sud.I Piani Palentini, che si estendono da Tagliacozzo a Capistrello, delimitati a nord est dalla catena del Velino e più a sud dal lago di Fucino, in buona parte sono opera sua. Oppure il fiume si è servito di essi per correre verso il lago del Salto, dove finisce la sua corsa, defraudato anche del nome, unitosi al fosso Rafia e al Salto e di lì nel divino Tevere, per cui si prende l’onore di essere nominato nell’Eneide da Virgilio, come ricorda il francescano Padre Livio Addari, nel suo interessantissimo libro: “Corcumello, nomi, cose, vicende”. Di esso si occupa anche l’abruzzese Ovidio, quando narra la vicenda della ninfa Semele, amata da Giove, manco a dirlo, e dalla quale fu tratto Bacco. Pare inoltre che le sue acque avessero poteri curativi delle malattie della pelle. I pastori dei tempi a noi più vicini vi tuffavano il gregge di pecore, dopo averle disinfettate nella creolina, per risciacquarne la lana e liberarla dai parassiti ormai morti. Le prendevano in due per le gambe e le immergevano in un tinaccio con acqua e creolina, Poi le conducevano al fiume in un posto dove era possibile il guado senza troppi danni. Davanti all’ acqua che correva placida e pulita le pecore non osavano tuffarsi e belavano a non finire. Il pastore per un po’ le stava a sentire, poi ne prendeva una e la gettava in acqua. La malcapitata non doveva fare altro che muovere le gambe e raggiungere l’altra sponda. Le altre, da pecore qual’erano, si tuffavano appresso sempre belando. Ritrovatisi all’altra sponda sane e salve e, datasi una bella sgrullata per togliersi un po’ d’acqua dalla lana, sembravano guardarsi l’un l’altra un po’ più contente forse per aver scoperto di saper nuotare!… Da Tagliacozzo l’Imele corre dritto verso Villa San Sebastiano e la pianura di Corcumello per poi piegare all’improvviso, fra jo Vareco e Jardino, verso Scurcola Marsicana e Magliano dei Marsi, sotto l’insormontabile massiccio del Velino. Un tempo le sue rive erano rigogliose di salici, pioppi e altre piante fluviali. Su quegli alberi nidificavano numerosi i passeri, i cardellini, le cinciallegre, i picchi e mille altri uccelli. Nei terreni che lo circondavano, fra le stoppie o l’erba medica correvano i piccoli delle quaglie. Vi cresceva in abbondanza la rafia, utilizzata per impagliare le sedie. Sulle larghe foglie delle ninfee selvatiche a pelo d’acqua gracchiavano all’imbrunire in modo assordante le raganelle che di giorno vi si riparavano per cercare di sfuggire alle bisce acquatiche a caccia di prede acquatiche. Era possibile osservare i movimenti guardinghi e quasi svogliati dei gamberi immersi nelle sue acque limpide, che filavano via, naturalmente all’indietro, appena avevano sentore di un qualche pericolo incombente, in una nuvoletta di acqua e fango, per rifugiarsi in un attimo negli anfratti scavati dall’acqua e da essi stessi. Abbondanti nelle sue acque guizzavano varie specie di pesci e, qualcuno dice, anche ottime anguille. Nei suoi pressi, fra Scurcola Marsicana e Magliano dei Marsi si combatterono ferocemente per il potere in Italia meridionale Corradino di Svevia e Carlo d’Angiò nella famosa battaglia da tutti conosciuta come “la battaglia di Tagliacozzo”, ma che di Tagliacozzo non è mai stata. Anche il sommo Dante non ebbe notizie esatte. Infatti, come noto, scrive nella sua Commedia: … “ e là da Tagliacozzo/ ove senz’arme vinse il vecchio Alardo”. Non proprio senz’arme. Infatti, appostato fra gli alberi e dietro le fratte di rovi che crescevano nei d’intorni, Aléard de Valéry sbucato all’improvviso con i suoi armati di riserva, quando la battaglia stava prendendo una brutta piega per i D’Angiò, e tutti erano stanchi morti, decise le sorti della stessa in favore di Carlo. Correva l’anno 1268 ed era il 23 agosto, piena estate. Carlo, che era molto devoto quando vinceva, festeggiò a modo suo e come si usava allora. Fece erigere un santuario alla Madonna della Vittoria, la sua vittoria, in Scurcola Marsicana, alle pendici del monte S. Nicola, dove l’asino bendato con l’Icona della Vergine sulla groppa si fermò, secondo qualche racconto, e dove ancora oggi è molto venerata dai “scurcolani”. Sicuramente non per ringraziarla per la vittoria del re francese. Per i fedeli non è necessario aver vinto le guerre per pregare. Si tinse di rosso il fiume Imele quel giorno. Il sangue si mescolò abbondante al sudore dei soldati e al puzzo del piscio e degli escrementi dei cavalli. Era già accaduto qualche secolo prima quando il ciociaro Mario e il romano Silla si scontrarono nei piani Palentini per conquistare il primato a Roma. Ne fecero le spese i Marsi. In anni recenti, dopo la fine dell’ultima guerra, l’Imele ascoltò il rombo dei nostri cannoni, fatti rivivere durante i campi militari che si tenevano nella zona. Gli artiglieri da Magliano prendevano a cannonate i Colli di Corcumello. I curcumellani venivano sfrattati dalle loro case e ammassati per giornate intere, sotto il sole estivo o all’ombra di qualche olmo, lungo la strada che congiunge Corcumello a Villa S. Sebastiano. Una fiammata dalle parti di Magliano, seguita da lì a poco da un tonfo cupo, annunciava la partenza del colpo. Nell’aria si sentiva un sibilo che terminava quando il proiettile si schiantava con fragore contro Rotella della macchietta o nelle vicinanze. Una giornata a far commenti su quanto si sarebbe potuto fare nei campi e ad imprecare. A volte pigro, a volte più vivo nel suo scorrere verso il lago del Salto e il fiume Velino, l’Imele in alcuni punti metteva paura con le sue acque rese misteriose e scure ancor più sotto l’ombra dei salici. In molti punti però poteva essere tranquillamente attraversato a piedi nudi. O entrarvi per pescare gamberi e rane. La sera qualche contadino ne faceva incetta. E per portarle a casa, non avendo altro, le infilava nelle maniche della giacca o della camicia, debitamente chiuse all’estremità. Fra “tralescerte” e “jo Pantano” si poteva attraversare sopra un salice riverso a mò di ponte tra le due sponde del fiume. D’inverno quando la tramontana tagliava la faccia e la temperatura scendeva facilmente di molto sotto lo zero per lunghi giorni e il cielo di notte era così limpido che si potevano contare anche le stelle più piccole e quando i fossi dei campi colmi di acqua diventavano una lastra di ghiaccio e la terra scricchiolava per il gelo sotto le scarpe, dove il fiume si distendeva fra le rive più ampie l’acqua più calma si trasformava in ghiaccio spesso tanto che ci si poteva divertire a sciarvi sopra con le scarpe chiodate. Era il divertimento soprattutto di ragazzi. Volteggiavano allegri e incoscienti dimenticando di guardare le pecore che raccattavano la poca erba che sbucava dal gelo. Uno spasso incredibile. Una pista di ghiaccio del tutto naturale. Chi passava guardava, scuoteva la testa e sgridava quegli scriteriati, minacciando di riferire tutto ai genitori e invitando gli sciagurati ad uscire da quel fiume che poteva essere una trappola. Tutti erano padri di tutti e tutti erano figli di tutti. E soprattutto gli anziani sono ancora gli “zii” di tutti. D’estate il fiume poteva essere altrettanto divertente a saperlo prendere.
Qualcuno però corse il rischio di essere risucchiato dalla corrente. I più prudenti, o paurosi, come fra loro si dicevano sfottendosi, non si azzardavano a sfidarlo. Facevano il bagno dove l’acqua non superava l’ombelico. Quelli che si ritenevano più esperti o più spregiudicati si avventuravano in acque più profonde per provare a se stessi che erano in grado di dominarlo. Rico un giorno volle sciaguratamente sfidare il fiume e le sue capacità di nuotare. Si tuffò nel posto forse più profondo e misterioso: jo Cupputone a pochi metri da dove il corso del fiume si divide in due e forma una piccola isola di terreno molto fertile.
Dopo i primi passi eccitanti dalla riva, di colpo sparì sotto l’acqua, forse scivolando nella melma. Qualche istante di stupore e di paura e la sua testa riapparve, gli occhi stravolti, la bocca spalancata in cerca di aria. Incominciò ad andare su e giù, sballottato da qualche diavolo in agguato fra le rive o appollaiato a ridere sopra un salice. L’acqua in quel luogo si arrotolava su se stessa e trascinava il povero ragazzo nel suo gioco crudele. Lo ingoiava e lo risputava a piacimento. Il poveretto non riusciva nemmeno ad urlare, sopraffatto da tanta forza. Ma anche se avesse potuto urlare, nessuno a quel punto lo avrebbe ascoltato. Il fratello sulla riva e gli amici mezzo nudi e inebetiti riuscivano a mala pena a chiamarlo. Inchiodati a riva dalla paura e coscienti di non essere in grado di intervenire, non osavano avventurarsi nell’acqua per dargli una mano. Lo strazio fortunatamente non andò avanti per non molto tempo, anche se a tutti sembrò un’eternità. Il fiume, stanco del gioco e divertito a sufficienza, fece trovare a Ricuccio un ramo che sfiorava l’acqua e che il ragazzo riuscì ad afferrare con tutte le poche forze rimaste tirandosi fuori. Non disse nulla. Cadde stremato sull’erba al sole per riprendere fiato, nudo come mamma l’aveva fatto. Gli altri rimasero muti e increduli a fissarlo, naturalmene contenti. Dopo un po’ si rivestì e si allontanò dal fiume maledetto alla ricerca delle pecore che avrebbe dovuto guardare, mentre il fiume continuava per la sua strada come se nulla fosse successo. Non si fece parola nemmeno con i genitori, né tanto meno col proprietario delle pecore di cui era garzone. Nelle acque limpide dell’Imele le donne, sotto il ponte della Rafia o nei pressi del ponte Nuovo, si piegavano sulle pietre lisce, sistemate lì come in un lavatoio, per sciacquare, battere e strizzare i panni, che avevano messo a bucato con la cenere del camino. L’acqua corrente, intanto che portava via la cenere, accarezzava la pelle candida delle gambe e lambiva le loro vesti anche se tirate su fin sopra al ginocchio. Venivano dal paese col carico di panni sulla testa. Percorrevano le strade di campagna fra gli sguardi e i richiami degli uomini a lavoro nei campi. Il gorgoglìo dell’acqua corrente in quei punti si mischiava alle chiacchiere delle donne, che parlavano di se, della famiglia, dei figli, dei mariti, dei fidanzati, delle speranze e delle delusioni. A volte si stizzivano fra loro per qualche sgarbo subito. Molto più spesso si aiutavano per stendere i panni al sole sul prato intorno o per piegarli. Lavati i panni e in attesa che asciugassero mangiavano un boccone di pane o pizza “summa”, senza lievito, cotta sotto “jo coppo”. Un po’ di formaggio di pecora per companatico o un uovo a frittata. Poi per dissetarsi bevevano l’acqua del fiume che non faceva male a nessuno. Qualcuna per ammazzare il tempo e non pensare sempre a come tirare avanti giorno per giorno intonava qualche canzone paesana. Le più giovani sognavano d’incontrare l’amore e cantavano “il cacciatore nel bosco” che incontra la contadinella, che incantata da un Principe Azzurro si gettava tra le braccia del cacciatore e della fantasia. Le innamorate invece canticchiavano: “dammi o bello il fazzolettino… vado alla fonte e lo vado a lavar”. Qualcun’altra si accodava e ne usciva un coro a due o tre voci con falsetto o terza di sotto. Non era raro il caso che altri in lontananza a lavorare i campi rispondessero al coro. A fine estate e prima dell’inizio dell’autunno la corrente del fiume, sotto il ponte della Rafia, imbiancava gli steli della cannavina. Venivano raccolti in fascine e tenuti fermi da pietre e paletti conficcati nel letto del fiume per non farli trascinare via dalla corrente e perché rimanessero sempre sott’acqua a macerare. Vi erano tenute per almeno otto giorni. Trascorsi gli otto giorni, la canapa veniva tirata fuori dall’acqua ed essiccata al sole. Poi frantumata con la “macinia” per togliere tutto lo stelo legnoso. Rimanevano solo le fibre che le donne, con le loro mani esperte e con tanto impegno, fra un lavoro e l’altro per tenere in ordine la casa e accudire a figli e mariti, lavoravano con” jo rocco” e con la “conocchia” per ricavarne “iommeri” di filo. Con quel filo, lavorato al telaio, si facevano praticamente quasi tutti i tessuti che servivano alla casa e alle . Sacchi, lenzuola, “sparelle”, contenitore di cartocci da mettere sotto il materasso del letto, “pannoni” nei quali si raccoglievano i frutti delle battiture dei fagioli, dei ceci, delle cicerchie, dei “ierevi”, degli “anasi” all’ara di Tascarella o all’ara degli Angeli (degli Aceri?) o a quella de jo Trasolero.. Vi si stendeva sopra il granoturco per farlo essiccare “ajo vale della otte”. La cannavina, un vero dono di Dio! Qualche volta diventava merce di scambio mischiata ad altri panni vecchi. Passava jo cinciaro, che in cambio di una pentola, di una padella, di un pettine o un pezzo di sapone, a seconda delle necessità e del valore, ritirava quei tessuti non più utilizzati e utilizzabili, tanto erano consunti. All’Imele vennero addebitati i danni delle esondazioni, perché non riusciva a contenere nel suo alveo tutta l’acqua che qualche volta non finiva mai di venire giù dal cielo, o così improvvisa da farsi trovare impreparato. Come con il diluvio che sconquassò Villa. L’acqua usciva dagli argini del fiume e non si accontentava di invadere i campi vicini, ma si espandeva fino alle “Prata”, seminando desolazione. Si era sempre detto: “sotto acqua fame, sotto neve pane”. E dunque si decise che era ora di finirla con le alluvioni di campi seminati soprattutto a grano. L’Imele fini in castigo. (Era già successo anni prima per una parte di esso. Dal ponte Nuovo in giù, verso Scurcola Marsicana, era già stato domato). Si abbatterono su di esso ruspe e scavatori e motoseghe che sradicarono i salici, i pioppi e l’altra vegetazione e la ridussero a legna da ardere. Distrussero le tane dei gamberi, i ripari dei pesci, le ninfee delle raganelle. Sollevarono centinaia di “cucchiarelle” dal fondo e le stesero al sole a fare da argine con il fango. Non ci fu più casa per i picchi, per i cardellini, per le cinciallegre, per le cornacchie sui rami degli alberi cresciuti sulla riva. Fu ridotto a canale. Ma ormai era troppo tardi. I curcumellani avevano abbandonato i campi e non parlavano più la lingua del fiume, ma altri dialetti. Era cambiato l’Imele e il paese. E “ jo fiumo” pian piano si riprende la sua vita, la sua storia e la sua vegetazione. Racconta altre storie.