Caccia al lupo
In un tempo, non troppo remoto, circa la metà del secolo scorso, qualcuno ancora ricordava e raccontava storie di lupi di qualche anno prima, quando il nostro paese, Corcumello, fu tenuto in ansia per la loro presenza. C’era chi diceva che in realtà si trattasse di un solo lupo forse perché più informato o solo per sminuire la storia che racconto. Sia come sia, la discesa dei lupi dalle montagne, che sono lì ad un passo dal paese, non era certo una novità. Semmai la novità era rappresentata dalla frequenza con la quale si aggiravano per i vicoli semibui del paese al calar della sera. Cresceva sempre più il numero di persone che giuravano di aver intravisto ombre inquietanti, sicuramente di lupi, aggirarsi vicino alle porte delle abitazioni, ma soprattutto nelle vicinanze delle stalle, e di avere udito ululati squarciare le tenebre. Insomma a Corcumello non si respirava un clima tranquillo. Per dirla proprio tutta, incominciava a serpeggiare la paura che costringeva le persone a starsene inchiodate, la sera, sulle sedie di casa. La circostanza impediva di mantenere i contatti con parenti e amici e un po’ di svago dopo la giornata di lavoro, soprattutto la vigilia delle festività, quando ci si riuniva per “sparlare” dei propri concittadini e, fra un bicchiere di vino e una chiacchiera, intonare canti paesani, allora in voga. Il lupo (o i lupi), tuttavia, non sembrava interessato ad assalire vecchiette indifese o bambine un po’ sventate, vestite di rosso, che si fossero avventurate per le strade dell’abitato o della campagna, tantomeno nei viottoli alle pendici della montagna. Del resto nemmeno in me, ancora bambino, quei racconti suscitavano timore, ma mi interessavano per un motivo, diciamo così, scolastico. Perché a scuola il maestro che parlava, per motivi di insegnamento, di lupi, ci teneva a specificare che si trattava di lupi “marsicani”. E in me, scolaro, entrava in testa il messaggio che in fondo eravamo compaesani dei lupi e che perciò non ci avrebbero fatto del male. La stessa cosa succedeva quando il discorso cadeva sull’orso, marsicano anche lui, talvolta chiamato anche “orsacchiotto marsicano” (davvero un bel peluche) con il quale per di più pare che noi marsicani avessimo anche qualche affinità caratteriale: un po’ scontrosi e testardi. Insomma mi erano simpatici. Di diverso avviso erano invece i pastori, che, stufi delle razzie, incominciarono a denunciare che il lupo (o i lupi) marsicano assaliva le loro pecore e mostrava i denti aguzzi da far paura a chi cercava di disturbarlo, fossero guardiani di pecore o cani pastore, che raramente riuscivano a farlo desistere dall’assalto. Così un giorno decisero di mettere al corrente della situazione il guardiano comunale, invitandolo a rappresentare a chi di dovere, in comune, a Capistrello, il disagio a cui erano costretti per seguire i loro greggi. Sollecitarono nel contempo l’intervento delle autorità. Chi di dovere spiegò al guardiano, pregandolo però di non farne cenno ai suoi pastori, che non sapeva come fare per impedire al lupo di azzannare le pecore, e che comunque avrebbe chiesto lumi ai Carabinieri. Pregò anche il guardiano di suggerire agli stessi pastori, badando che non sembrasse una minaccia, di non prendere iniziative cervellotiche contro nessun animale che –“se è stato creato”-disse –“a qualcosa serve”-. Il guardaboschi, che aveva esperienza da vendere per interpretare quel linguaggio, riferì ai pastori che le autorità si sarebbero impegnate seriamente ma che avevano bisogno di qualche giorno per studiare un piano d’intervento fattibile e non pericoloso.
Perciò raccomandò di pazientare. I pastori, anch’essi la sapevano lunga, e capirono che le autorità non avrebbero fatto nulla e che era inutile perdere tempo; compresero anche che, a meno di non trovare un nuovo San Francesco che spiegasse ai lupi marsicani che non era cristiano assalire pacifiche pecore marsicane al pascolo, per tenere a bada quegli ospiti non graditi, dovevano usare mezzi di tutt’altro genere che le chiacchiere o i miracoli. Si sarebbero rivolti, senza indugi, stuzzicandone l’interesse ed eventualmente l’orgoglio, a chi sapeva maneggiare un fucile. In questo campo il paese offriva ottimi campioni, fra i quali spiccavano Moretto, dalla mira infallibile, e colui chiameremo Franco, così ribattezzato da Richetto il quale,
militare al nord, in quel di Cuneo o Casale Monferrato, aveva assistito alla rappresentazione dell’opera lirica di Carl Maria Von Weber intitolata : Der Freischütz, in italiano: “Il franco Cacciatore”, scambiando l’aggettivo “franco” con il nome proprio Franco cioè di colui, che secondo Richetto , era il nome del protagonista dell’opera. In realtà nell’opera non si parla di nessun Franco. Per la verità un piccolo legame c’è fra il nostro cacciatore e Max, il protagonista dell’opera: Max si riforniva di proiettili magici, (essendo tali per aver venduto l’anima al diavolo) con i quali gareggiava nei tornei, per conquistare la figlia del guardaboschi in una località chiamata “la valle del lupo”; mentre il nostro Franco a volte fabbricava i proiettili in un suo terreno in via delle Valli a Corcumello. Questa circostanza probabilmente fece scattare in Richetto, non nuovo a trovate del genere – che qualcuno riteneva geniali e qualche altro semplicemente prive di senso – la scintilla di una certa, diciamo così, affinità fra i due. I pastori, dicevamo…, dopo una serata passata a valutare il pro e il contro, lontani da occhi ed orecchie indiscreti, considerato che Moretto, (il cacciatore ricordato dai suoi parenti con un paio di versi che in qualche modo richiamano quelli del volume “Antologia di Spoon River” di Edgar Lee Masters e che grosso modo si possono leggere sulla lapide della sua tomba nel cimitero di Corcumello :”Detto Moretto, che ormai non spara più. Spara tu!) ” più avanti negli anni del rivale, difficilmente avrebbe accettato l’incarico, anche perché quel tipo di caccia non si addiceva al suo stile e soprattutto perché pensava di non dover dimostrare a nessuno quanto valesse. Scelsero perciò a loro campione Franco, che invece aveva l’ambizione di voler essere considerato o diventare il numero uno dei cacciatori di Corcumello. Oltretutto, secondo un’usanza che veniva da lontano, non si sa quanto applicata nel tempo, se l’impresa fosse riuscita, egli avrebbe avuto il privilegio di fare bella mostra anche ai cacciatori dei paesi vicini, girando a cavallo della sua mula con la carcassa del lupo riempita di paglia come trofeo, e narrando l’impresa come un cantastorie. Nonostante ciò e non rinnegando i suoi propositi di essere considerato il più bravo, il nostro Franco sembrò lì per lì non apprezzare la scelta con l’entusiasmo che ci si sarebbe aspettato quando Italo, portavoce dei pastori si recò nel suo fortino di via delle Valli a comunicargli la decisione dei pastori. Franco lo accolse con una certa freddezza, restio a mostrare il suo rifugio a estranei: come prima cosa disse a Italo, che gli aveva illustrato la decisione dei colleghi, che non era il caso di avventurarsi in una impresa che in fondo non lo riguardava. I lupi non gli avevano fatto nulla. Italo, colto di sorpresa da quell’atteggiamento, mormorando: “Se così stanno le cose, vuol dire che ci siamo sbagliati…”. Si voltò per andare via. Franco, che a sua volta non si aspettava una reazione simile, lo invitò a fermarsi: “Italo, suvvia non prenderla …Torna indietro e parliamone…”. Quando zì Italo, voltatosi con calma e quasi pesando i passi gli fu vicino, Franco proseguì: – “Cerca di capirmi…”. Zì Italo si avvicinò ancora a Franco. Poi, sicuro di averlo in pugno, con calma lo guardò negli occhi e ripeté: -“Parliamone!…”. “Dicevo, cerca di capirmi…Io non ho mai fatto una cosa del genere….”. ”Ti capisco, ma ci sono rimasto male. Le tue parole mi hanno ferito. Io e gli altri pastori facciamo molto affidamento sul tuo aiuto. Ma tu, con il tuo atteggiamento mi costringi a pensare che forse era meglio coinvolgere Moretto, che ultimamente si è esibito “nella caccia” grossa, catturando una volpe viva”. Franco lo guardò dritto negli occhi, e ridendo di gusto, obiettò, scandendo le parole: “Paragonarmi a Moretto… Non dico che non sia un bravo cacciatore, che stimo molto… Ma per certe cose non basta essere un bravo cacciatore e nemmeno bravissimo. Bisogna avere fegato soprattutto quando la bestia ti fissa in tono di sfida e digrigna i denti, come qualcuno racconta… E poi lui, Moretto, se l’è presa con una “‘olepetta”, che è pure scappata…”. Corse voce infatti, che la volpe si fosse liberata dalla sua prigionia, mordendosi la zampetta che la teneva legata al discendente dell’acqua piovana. “Lasciamo stare le chiacchiere”, tagliò corto Italo, “Sappiamo che tu hai coraggio da vendere, per questo chiediamo il tuo aiuto”. “E io voglio darvelo anche se so bene di non guadagnarci nulla. Correrò comunque il rischio. A me, come ho già detto, i lupi non hanno fatto nulla di male….“. “Questo lo so. Ma tu non sei un egoista”, riprese zì Italo; “e poi, da quello che ci risulta, non si correrebbero molti rischi, trattandosi, secondo le voci più accreditate, di un solo lupo, due al massimo… E probabilmente vecchi e fuori dal branco. Tu con poco sforzo puoi guadagnare in fama e anche qualcosa d’altro-“. “Io non ho bisogno di nulla… tantomeno per campare. Mi basta quello che ho per me e la mia famiglia”. Disse risentito. “Via, non prenderla a male”, si scusò zì Italo battendogli la mano sulla spalla, “è’ un modo di dire”, concluse. Stava intanto per calare la sera, che avvolgeva gli alberi numerosi nella tenuta di Franco. Anche i nostri due stavano per essere ingoiati dalle tenebre.
Decisero perciò che era meglio finirla lì. Franco lasciò capire che avrebbe dedicato buona parte del suo tempo libero ad aiutare i pastori. E per suggellare il patto strinse la mano come si usava nelle fiere per la compravendita di bestiame. Mentre saliva verso casa, ripensando all’incontro col pastore zì Italo, molti dubbi incominciarono ad agitarsi nella sua testa. Non era del tutto convinto che quella caccia al lupo fosse una cosa sensata. Che colpa avevano i lupi se per mettere a tacere la fame andavano a caccia di pecore? Semmai la colpa era da attribuirsi alla natura, sia perché li aveva creati carnivori, sia perché in quella stagione era più facile trovare pecore che altra selvaggina.
Gli uomini non seguivano l’istinto che madre natura gli aveva dato? E poi: da dove iniziare la caccia? Un giorno si diceva che erano apparsi all’improvviso al colle Lorenzóno, vicino alla cèsa di “Gisèppe”. Il giorno appresso si riferiva che erano scesi dalla Madonna dejo Mónto e, attraversate Cèse Larghe, si erano spinti fin nei pressi dell’ingresso al tunnel dell’acquedotto romano del Riosonno. Chi aveva il gregge a pascolare alle “Rutti” giurava di aver incontrato il lupo proprio da quelle parti. Insomma, quelle bestie non stavano mai ferme. Ma pure in mezzo a queste difficoltà, Franco aveva dato la parola e intendeva mantenerla. Perciò incominciò a guardarsi attorno e ad alzare gli occhi sulle montagne che salivano verso il cielo, alcune piene di vegetazione altre quasi completamente spoglie ma altrettanto ben fornite di nascondigli. Il tempo libero dai lavori nei campi lo dedicava a lunghe passeggiate anche per incontrare i pastori, sperando di avere lumi sulle abitudini di quei rompiscatole di lupi. Durante una di queste ricognizioni, percorrendo la scorciatoia pedonale che da Corcumello porta a Capistrello, nei pressi delle Grottelle di San Gregorio alle Castagne, incontrò Minicuccio, che pascolava il suo gregge. Il luogo non era molto frequentato dagli altri pastori, perché, a loro dire, l’erba non era di prima qualità. Era in prevalenza” falasca”, anche se abbondante. Franco si avvicinò al pastore salutandolo con un gesto della mano e accompagnando il gesto con le parole: – Tutto bene?- Minicuccio rispose: – “Tutto bene”… “Da qualche giorno si respira aria di tregua”- aggiunse: – Forse quelle bestie hanno fiutato le novità e si tengono alla larga…-. –“Potrebbe anche darsi che abbiano delle spie….”, aggiunse sorridendo Franco. “Tutto può essere… come si fa a saperlo?“. Anche Minicuccio accennò un sorriso. Franco chiese al pastore se secondo lui si aveva a che fare con uno o con più lupi. Il pastore rispose di non saperlo. Quelle bestie gli sembravano tutte uguali…Franco domandò ancora se avesse mai avuto paura. Minicuccio, quasi parlando fra se e se, rispose: -“Quando te li trovi davanti che digrignano i denti e hai in mano solo un bastone…Non sai mai cosa gli passa per la testa…-“. Parlarono ancora un po’. Infine si salutarono e ognuno andò per la sua strada. Franco durante il tragitto di ritorno al suo casale promise a se stesso che avrebbe posto fine quanto prima a quell’avventura. L’incontro con il pastore, chissà perché, gli aveva dato la spinta giusta. Anche il luogo gli era sembrato sufficientemente adatto per un agguato a quelle bestiacce. Perciò il giorno dopo avrebbe tentato la fortuna e forse avrebbe chiuso quella vicenda, che non gli dava requie. Il mattino successivo, Minicuccio portò il gregge a pascolare al solito posto. Franco lo aveva preceduto e per il pastore fu una vera sorpresa. Fu ancora più sorpreso nel vedere Franco tirare fuori da un sacco un fucile tirato a lucido e a seguire una cartucciera, che serviva anche da cinghia per i pantaloni, con le cartucce sistemate in bella fila, ma coperta da un giubbotto di pelle, che di solito indossava per le battute di caccia. Il pastore, che ormai aveva capito lo scopo di quel travestimento, si avvicinò a Franco per salutarlo: -“Quasi quasi non ti riconoscevo”…-. “- Non mi avevi mai visto prima con addosso questi panni?”-. – “No… Io sto lontano dalle armi”…” Gli spari- proseguì- mi danno in testa.”- -“Ma sei grande e grosso”- azzardò Franco- “E’ quello che esce dalla canna del fucile che deve spaventare:”-.” -A me da fastidio anche lo sparo, come tutti i rumori forti. Pensa che quando ammazzano il maiale io scappo a nascondermi”.-. “-Un bel problema”- commentò Franco, aggiungendo: -“Se oggi abbiamo la fortuna di avere fra noi quelle bestiacce, ti prometto che sparerò senza far rumore”…- Concluse ridendo di gusto. E senza aggiungere altro si allontanò per un’ultima ispezione nei dintorni anche se già aveva deciso dove aspettare la preda. Si appostò nei pressi dello sbocco dell’acquedotto del Riosonno, dove la vegetazione era folta ma non tanto da impedirgli una visuale adeguata sia verso la montagna che sul terreno più in basso. Sedette sopra una pietra, il fucile sulle ginocchia e lo sguardo vigile. Minicuccio si avvicinò alla postazione e domandò a Franco come mai avesse deciso di agire proprio quel giorno, visto che non gliene aveva fatto cenno la sera prima. Il cacciatore lo scrutò per un tempo che a Minicuccio sembrò un’eternità. Infine rispose: “L’istinto. E’ stato l’istinto a suggerirlo”. Nient’altro che l’istinto….Un cacciatore non ne può fare a meno. Questa notte qualcosa, che non so cosa sia, ha messo dentro la mia testa un chiodo parlante che mi ha ordinato di tornare qui”….. “Non sono pazzo” aggiunse, vedendo l’espressione sul viso del pecoraio… Non disse altro. Fece segno a Minicuccio di lasciarlo solo. Il tempo scorreva lento ma inesorabile, come faceva l’acqua dell’Imele tra il ponte della Rafia e il ponte nuovo quando scarseggiava e l’inverno, in superficie, diventava una lastra di ghiaccio su cui si poteva scivolare, senza che nulla di tragico accadesse. Unica compagnia i rintocchi dell’orologio del paese quando il vento volgeva in quella direzione. Giunsero anche quelli delle “Ventunora” dal campanile della chiesa, Franco fece una smorfia sconsolato: “ E’ ora di tornare a casa“ –si disse. Ma, prima che riuscisse a dare seguito al proposito, notò una certa inquietudine intorno. Le pecore avevano alzato la testa e i cani incominciavano a ringhiare, facendo il girotondo intorno ad esse. Franco non ebbe dubbi: stava per accadere quello per cui si era preparato. Uscì dal cespuglio imbracciando il fucile. Non trascorse più di un minuto perché ognuno fosse pronto a recitare la parte che doveva: Franco con il fucile pronto; Minicuccio, che faceva finta di essere tranquillo mentre cercava un nascondiglio, qualunque esso fosse; le pecore, sempre più nervose, che agitavano la testa a destra e a sinistra e i cani che ringhiavano sempre più forte in attesa dello scontro con gli intrusi. Fuori di questo schieramento sembrava regnare una pace surreale. All’improvviso tutto cambiò: i cani incominciarono ad abbaiare, le pecore a correre in tutte le direzioni, tra i cespugli, un lupo a rincorrerle e uno sparo secco che il vento diffuse nell’aria fin dentro il cervello del pastore e dell’assalitore, che colto di sorpresa, con una improvvisa inversione di marcia, voleva riprendere la via del ritorno. Franco sparò un altro colpo. Questa volta colpì il lupo, che come se avesse inciampato, rotolò dal viottolo sul prato. Tornata la calma, Franco, seguito dal pastore, si diresse dove lo aveva visto rotolare. Trovatolo, il cacciatore si avvicinò con cautela. La bestia non si mosse, nemmeno quando lo stuzzicò con la canna della doppietta. Minicuccio, un po’ in disparte, si copriva le orecchie con le mani ma non udendo altri spari, capì che il lupo era morto. Tirò un sospiro di sollievo e avvicinatosi lo toccò con il bastone. Poi chiese a Franco “Che si fa ora?”- Prima che Franco aprisse bocca continuò: -“Una volta, nemmeno tanto tempo fa, chi ammazzava un lupo portava la sua pelle ripiena di paglia in giro per i paesi, per mostrarlo a tutti…. E magari per raccontare i particolari dell’impresa”…- Franco lo guardò severo e disse, scandendo le parole: -“Questa storia non mi è piaciuta per nulla. La bestia che correva fino a qualche minuto fa così maestosa non può subire una simile umiliazione. Per me finisce qui”, concluse con un tono della voce che non ammetteva repliche. Raccolse le sue cose e s’avviò verso via delle Valli con un senso di vuoto dentro. Prima però intimò a Minicuccio di dare una sepoltura al lupo, per non lasciarlo esposto alla fame degli altri abitanti della notte.
Ettore Ruggeri al suo paese Corcumello, 15.03.2020