Giochi innocenti per bambini…

…No, non eravamo deficienti. Tutt’altro! Non eravamo nemmeno inventori. Secondo le circostanze e il tempo libero, semplicemente costruivamo i nostri giochi da soli o con l’aiuto dei grandi, seguendo gesti antichi, di un mondo quasi immobile rispetto alla frenesia di oggi. Premessa: questo non vuole essere un elenco di giochi per noi che li abbiamo fatti, ma un racconto, nemmeno esaustivo, per far conoscere come ci si divertiva allora. Illo tempore … e lo è quasi, visti gli anni trascorsi e soprattutto i cambiamenti avvenuti. Non vuole essere nemmeno un paragone con i giochi con cui ci si diverte oggi. A ognuno le sue cose. Il tempo dedicato al gioco, come sempre, non bastava mai. Forse per noi era anche un po’ più limitato. Quasi tutti si dava una mano per rendersi utili alla famiglia. Nei lavori dei campi, per esempio, per quello che potevamo, vista l’età. O nel portare a pascolo qualche bestia: pecore, mucche, ecc. Chi non le aveva si impiegava come garzone. Qualche volta c’era anche da studiare… Torniamo ai passatempi, che è ciò che ora ci interessa. S’iniziava giocando a cosèlle. I giochi dei più piccoli. Era anche il passatempo più gradito ai frequentatori dell’asilo appena aperto nel castello Vètoli sotto l’occhio attento delle suore, intanto che la cuoca suor Lucia preparava la minestra. Le lodi della quale e della cuoca erano elencate nella canzoncina: “quanto è buona la minestra, che si mangia dalle suore” …Non è il caso di cantarla tutta. Ci basta il ritornello: “Trallallà, trallallà, andiamo a tavola a mangiar”. Bella, no?…. Il gioco della campana, il salto con la corda e le bricce erano prevalentemente al femminile, ma le distinzioni di sesso non era necessario rispettarle. La manualità, centrale nel gioco.

A me nelle lunghe giornate dietro un piccolo gregge, piaceva costruire pifferi con la corteccia di rami di castagno. L’opera riusciva bene a primavera quando la linfa della pianta è abbondante e la corteccia si sfila dal ramo senza rovinarsi. Una volta costruito, il ro non emetteva certo le note della Primavera di Vivaldi, ma la soddisfazione di udire qualche suono uscire da quella corteccia per l’impegno profuso. Un altro attrezzo da gioco, fatto con il legno di sambuco era jo scoppo, micidiale arma da scoppio (!) senza polvere da sparo e con pallottole di canapa o altro materiale a buon prezzo, impastate in bocca con la saliva. Ci si sfidava a chi riusciva a mandare più lontano il proiettile o a colpire il nemico….A me nelle lunghe giornate dietro un piccolo gregge, piaceva costruire pifferi con la corteccia di rami di castagno.

L’opera riusciva bene a primavera quando la linfa della pianta è abbondante e la corteccia si sfila dal ramo senza rovinarsi. Una volta costruito, il ro non emetteva certo le note della Primavera di Vivaldi, ma la soddisfazione di udire qualche suono uscire da quella corteccia per l’impegno profuso. Un altro attrezzo da gioco, fatto con il legno di sambuco era jo scoppo, micidiale arma da scoppio (!) senza polvere da sparo e con pallottole di canapa o altro materiale a buon prezzo, impastate in bocca con la saliva. Ci si sfidava a chi riusciva a mandare più lontano il proiettile o a colpire il nemico…. A proposito di questo attrezzo, ho scoperto che non era una prerogativa di Corcumello. Lo praticavano anche i ragazzi di Montelanico, paese dove ora vivo. Come pallottole usavano le ghiande, segno di evoluzione dell’arma!…Altro passatempo era la conduzione dejo circhio. Anche questo praticato un po’ dappertutto e probabilmente in uso dal tempo dell’invenzione della ruota. Tutti gli attrezzi in grado di ruotare erano buoni, ma chi aveva la fortuna di rimediare un cerchio di bótte non più adatto allo scopo per cui era stato costruito o il cerchione di una vecchia bicicletta, poteva credere di avere una fuoriserie. Jo circhio si spingeva dando colpetti, più o meno decisi con una “mazza” a seconda se si voleva andare a passeggio o sfidarsi nella corsa. A fuitélla o a nasconnarèlla , o a schelechelecòcche o a sàrda la quaglia si giocava prevalentemente quando c’era da scaldarsi. Fuitélla e nasconnarèlla tutti sanno cosa siano. Una breve spiegazione è doverosa per schelechelecòcche. Parola forse solo corcumellana, come secoroncìcola, testimone di un dialetto, che evolveva lentamente. Un giocatore è chiuso -per modo di dire- nel cerchio segnato per terra, chiamato jo róto. Per liberarsi deve toccare uno degli altri giocatori che gli girano intorno recitando la cantilena: Schelechelecòcche, còcche, còcche… Chi veniva toccato prendeva il suo posto all’intero dejo róto e il gioco continuava. Si facevano gare appassionate a battimuro o a crucchitti, una sorta di booling, per capirsi, con birilli di sasso appoggiati sul terreno, che dovevano essere buttati giù colpendoli con altri sassi, perlopiù appiattiti. E poi c’era la zézza. Vogliamo chiamarla baseball corcumellano? Con un bastone bisognava far sollevare jo zizzo leggermente appuntito alle due estremità, e colpirlo a volo. Vinceva naturalmente chi lanciava jo zizzo più lontano. C’erano giochi più rischiosi, come j’ óo ‘nganna e pesanti come sàrda la mùia, da non confondere con sàrda la quaglia. Tutta roba genuina, ispirata dalla quotidianità. J’ óo ‘nganna era un gioco prevalentemente carnevalesco. Si appendevano al soffitto un uovo sodo e un carbone acceso. Uno vicino all’altro, facendoli scendere fino ad altezza del viso. Per prendere l’uovo si doveva allontanare il carbone acceso soffiandogli contro mentre dondolava, per tenerlo lontano dal premio, l’uovo. La vittoria, con garanzia di scottature ma anche di mangiare l’uovo, toccava a chi riusciva a prendere l’uovo con la bocca naturalmente. Sàrda la muia è stato immortalato con foto varie sui network e non è il caso di descriverlo. C’era solo da commiserare chi doveva portare sulla groppa un peso massimo. Non c’era partita: si sgugugliava (sic). Sàrda la quaglia era più movimentato. Una serie di partecipanti al gioco si disponeva piegato ad angolo retto in fila a un po’ di distanza l’uno dall’altro. Solo uno restava dritto e iniziava a saltare, appoggiando le mani sulla groppa dei partecipanti, piegati a quarantacinque gradi, uno dopo l’altro. E, di salto in salto, andava a posizionarsi alla fine della fila per essere a sua volta saltato dagli altri che man mano seguivano. Si continuava fino a quando non ci si stancava o ci si stufava. Alla fine di questo riassunto per sommi capi non si può fare a meno di parlare del gioco universale, giocato prevalentemente con i piedi: il calcio. Non quello ufficiale che si giocava dov’è l’attuale giardino comunale. Un campo di forma trapezoidale, più stretto verso via delle Valli, più largo verso le casette, molto spesso alluvionato dall’acqua che scendeva da via delle valli. Parlo di un altro campo di calcio, inventato dai giocatori con molta fantasia, che partiva all’inizio dell’allora via centrale, attuale via Padre Livio, si estendeva dalla stalla di zi’ Duilio, passava sotto l’attuale casa di Trenta e finiva dove la strada curva, sotto la casa di Zugnìtto. Un campo di calcio in salita, o in discesa se vi pare meno faticoso. Ci si sfidava sul far della sera con palle rimediate barattando con lo stracciarolo a suon di stracci o con gli stessi stracci legati a forma di palla. Si arrancava parecchio per segnare un gol nella porta in salita. Era un’impresa titanica, manco a dirlo. Ci si rifaceva però quando si cambiava campo e ci si poteva “sfiziare” correndo verso la porta in basso. Anche in quel caso però non sempre l’impresa di segnare un gol riusciva. La palla spesso scendeva più velocemente delle gambe che dovevano calciarla. Ma noi probabilmente, senza saperlo, avevamo inventato per necessità la regola dell’inversione di campo…

Ettore

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