In attesa della Pasqua

Puntuali anche quell’anno erano tornati i Missionari. Li chiamarono “quelli con il cuore di legno”. Erano i religiosi Passionisti, che portavano, appeso alla tonaca nera, un cuore, scolpito probabilmente nel legno, trafitto da una corona di spine e sormontato dalla croce, per non scordare gli strumenti di sofferenza e di morte con cui Cristo aveva redento gli uomini. Tuttavia, nonostante i segni di sofferenza in bella vista sul loro petto, i missionari dimostravano di essere persone allegre e ottimiste, portatrici di cariche positive, che servivano di consolazione ai credenti e risvegliavano nei più disincantati e scettici, almeno per un certo periodo, speranze e voglia di “convertirsi”, prima o poi, a una fede più convinta. Impresa non sempre facile, qualche volta per l’educazione ricevuta, qualche altra per le difficoltà da superare ogni giorno, che distraevano lo spirito e mortificavano la spinta ad essere più buoni. Missionari e fedeli, almeno la stragrande maggioranza, erano animati da buona volontà e in quei giorni facevano propositi di impegnarsi nel modo migliore per il futuro. Durante la missione il paese sembrava in festa, nonostante la Quaresima, perché, spiegavano i padri Passionisti: “ Nostro Signore non è un musone. Né si vendica per le offese che da noi riceve, quando non seguiamo i suoi precetti o lo offendiamo con le nostre bestemmie. Lui conosce le nostre difficoltà e debolezze e non vede l’ora di perdonarci. Ma non dimenticate – aggiungevano con tono severo che tuttavia non sembrava una minaccia – che Lui è anche sommamente giusto e per riprenderci sotto la Sua protezione vuole che il nostro pentimento venga dal profondo del cuore e che spinga a fare tutto il bene che possiamo. Questo della Quaresima è il tempo che il Signore ci ha concesso per il ravvedimento. Soprattutto vuole ricordarci di non essere attaccati alle cose di questo mondo, che sono passeggere, né alle nostre ripicche nei confronti del prossimo come dice la canzone: campassi pure cent’anni/ senza pene e senza affanni/ alla morte che sarà/ ogni cosa è vanità. Ascoltando queste parole non si poteva che sentirsi più buoni. E c’era chi come zia Irene, colpita dalla grazia di quelle parole, uno di quei giorni, sentendo bestemmiare un suo compaesano che passava per strada davanti casa sua, non poté fare a meno di riprenderlo, non con la dolcezza dei missionari, ma in modo del tutto originale: “Che bestemmi?- lo apostrofò. -Lascia stare il Padreterno, che quello si sta facendo i cavoli suoi!”. (Naturalmente, non disse “cavoli”…). I frati Passionisti, che nonostante il freddo giravano per il paese con ai piedi sandali aperti e senza calze, distribuendo parole di incoraggiamento a superare le difficoltà di una vita senza troppe speranze di miglioramento e facevano visita a chi non poteva partecipare alla missione per consolarli e ridargli speranza; erano un esempio vivente nelle opere di penitenza e ispiravano nei paesani fiducia, anche quando parlavano di cose un po’ riservate. C’è da dire tuttavia che non a tutti piaceva molto quel loro insistere sui rapporti fra mogli, mariti e “fidanzati”, come confessava qualcuno.

Nel clima di riconciliazione con Dio creato dai frati, la giornata più importante della missione era quella dedicata alle confessioni. Buona parte dei cittadini partecipava al rito. Le donne in fila davanti ai confessionali, gli uomini, avendo il confessore trovato posto nello spazio dietro l’altare principale della chiesa parrocchiale, aspettavano seduti sui banchi delle confraternite, a destra e a sinistra dell’altare non sempre con il doveroso rispetto del silenzio. Forse il mormorio, le risatine, i piccoli dispetti non erano del tutto fuori luogo, perché nei rari momenti di silenzio si potevano ascoltare le sollecitazioni e gli incoraggiamenti del confessore ad aprire il cuore alla speranza del perdono.

Qualcuno raccontava addirittura di aver colto involontariamente questo dialogo: -Figliolo, -chiese il confessore- quante volte hai bestemmiato in una giornata?- Il poveretto rimase senza parola e farfugliò qualcosa che forse voleva dire che non poteva ricordarlo. Aveva bestemmiato, questo è certo, ma non aveva mai pensato di dover tenere il conto delle bestemmie di una giornata. -Ricordati, figliolo, che i peccati mortali vanno confessati uno per uno- -Ma io non me ne ricordo…- si scusava il poveretto. -Fai un piccolo sforzo…- insisteva il confessore Le cose sembravano andare per le lunghe, così qualcuno che aspettava e aveva un po’ di fretta, suggerì fra l’ilarità generale : – Digli cinquanta!- Come fosse andata a finire la storia non si sa. Il fuori programma probabilmente rimise le cose a posto e le confessioni potettero continuarono come da programma. E così anche la missione, che volgeva al termine. Mancava un ultimo adempimento a ricordo della devozione dei curcumellani: piantare un’altra croce di ferro a ricordo di quelle giornate di preghiera e di buoni propositi. Quell’anno toccò a Pede la Piàja avere l’onore di accoglierla. La Pasqua intanto era ad un passo. Gli spiriti si erano rinfrancati per l’opera dei padri passionisti. Molti fedeli avevano confessato i loro peccati e proposto di non farne più, anche se era un po’ arduo mantener fede al proposito. Il parroco era soddisfatto, benché in quei giorni di missione si fosse sentito messo un po’ da parte e soprattutto aveva dovuto sottostare al paragone con i “bravi” Passionisti. Di buona lena però preparava le funzioni della settimana santa. Come da tradizione, preparò dentro la chiesa il sepolcro con il corpo martoriato di Cristo morto e sua madre, che straziata, lo vegliava. In mancanza di fiori lo abbellì con vasi di germogli di grano un po’ ingialliti per essere cresciuti al riparo della luce. Ai lati vigilavano, dipinti nel cartone, figure di soldati romani con elmo e gonnellino sotto la corazza, e i farisei con i loro lunghi abiti e teste fasciate. Tirò giù la croce di legno, di solito appesa ad una parete della sacrestia e quasi messi a nuovo gli strumenti della crocefissione attaccati ad essa: il martello, i chiodi, le tenaglie, la lancia e la canna con la spugna la tavoletta con scritta la motivazione della sentenza che aveva condannato Gesù Cristo : INRI, Gesù Nazareno Re dei Giudei. Soprattutto curò in modo particolare le piume colorate del gallo, appollaiato nel punto più alto della croce, testimone implacabile del rinnegamento di Pietro. Dai cassetti dell’armadio tirò fuori anche i cappucci e i vestiti neri, che nella processione del venerdì santo avrebbero indossato i fedeli addetti a portare Cristo morto. Avrebbe anche voluto vietare l’uso delle “ràcane”, a campane “legate”, durante le funzioni e soprattutto la pessima abitudine del fracasso in chiesa ottenuto battendo i pugni sulle porte di legno, contro il confessionale e sui banchi. Dovette rinunciarvi ancora una volta. – Ma sarà l’ultima, sappiatelo fin da adesso- promise con il tono che non ammetteva replica a chi rivendicava il rispetto della tradizione che con quel fracasso immaginava di imitare il terremoto che fece svegliare perfino i morti di Gerusalemme nel momento della morte di Cristo sulla croce. Nonostante gli sforzi del parroco e la piccola contestazione di qualche nostalgico, le funzioni si svolsero come da copione. Non erano particolarmente affollate di giorno. Nemmeno la funzione del venerdì, che qualcuno chiamava messa capopète, e che si celebrava alle tre del pomeriggio, con le orazioni e i canti scrupolosamente in latino, e che non incuriosiva ormai più di tanto. Affollata invece era la processione del Cristo morto che si svolgeva di sera, per le strade del paese, alla quale la scarsa illuminazione conferiva un non so che di spettrale. I prescelti a portare Cristo morto, tonaca e cappuccio nero in testa, con solo due fessure all’altezza degli occhi, che a volte, secondo i movimenti, sembravano fiammeggiare alla luce delle candele, erano delegati a rappresentare tutto il popolo penitente. Sul corpo martoriato di Cristo versava lacrime di dolore Maria, la madre, con il fazzoletto bianco stretto nella mano per asciugare le lacrime. Fra un’invocazione di perdono e una preghiera i partecipanti cantavano una canzone che narrava le varie fasi delle torture subite dal Redentore, ognuno chiedendo perdono e assumendosi una parte di responsabilità per il malfatto. (Chi scrive ricorda solo una strofa: Gesù mio con dure funi/ come reo chi ti legò? Sono stati i miei peccati/ Gesù mio perdono, pietà). Qualche buontempone in vena di scherzi, anche in un’occasione tanto tragica, avvicinandosi all’orecchio del vicino, invece di dire: “sono stati i miei peccati”, canticchiava sogghignando divertito: “sono stati i preti e i frati…”. Dopo la rievocazione di tanto dolore, tutti aspettavano la liberazione del sabato. Ai piedi della scalinata di destra della chiesa si accendeva il fuoco, a significare il ritorno della luce e del calore che precedeva la resurrezione di Cristo. Il parroco benediceva il fuoco e l’acqua che sarebbe servita per il fonte battesimale. Le campane tornavano a far sentire i loro rintocchi annunciando l’inizio della Pasqua. Nelle case si preparavano i cibi della tradizione: i “fiaùni”, sorta di focacce con formaggio, uova, ricotta e altri ingredienti, la pizza dolce, la “pupa”, a forma di bambola per le ragazze, con uovo sodo in pancia e il galletto per i maschi, anch’essi con uovo sodo in pancia. Erano i dolci che si mangiavano anche accompagnati da qualche fetta di salame durante la morènna alla Conétta, all’Ara degli angeli o alla Croce. Per il pranzo di Pasqua ogni famiglia cercava di dare il meglio di se. Poi ci si concedeva qualche svago. Una partita a bocce davanti alla mola per gli uomini o a carte da zi’ Pasqualino e per le donne quattro pettegolezzi durante la visita di qualche amica. Magari sotto il cielo azzurro di inizio primavera che serviva a mantenere viva la speranza in un domani migliore.

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